Fino al 1971 ad ogni banconota USA corrispondeva una pari quantità di oro: allora, come ora, il prezioso metallo era depositato, in lingotti, nell’immenso forziere di Fort Knox.
La sera del 14 agosto di quell’anno, in diretta tv, il presidente Nixon abolì definitivamente la cosiddetta convertibilità. Gli accordi stretti con quasi tutti i Paesi del mondo – non aderirono solo i Paesi del Patto di Varsavia – passarono così a miglior vita.
Perché quella clamorosa decisione? Le quantità di oro si andavano esaurendo ed al contempo, gli americani, da sempre gran spendaccioni ed esageratamente esterofili, in meno di trent’anni avevano prosciugato metà delle riserve auree.
Da quel momento in poi, ad occuparsi dei rituali disavanzi ci ha pensato esclusivamente la Federal Reserve, stampando danaro a go-go. Tuttavia, da allora in poi il dollaro è sempre rimasto assoluto dominatore degli scambi planetari di beni e servizi.
Perché affrontare questo argomento proprio adesso? Da Mosca, sibila uno spiffero: a Putin sarebbe venuta in mente una pazza idea. Eccola: depositare stabilmente nel caveau della Banca Centrale russa, una quantità di oro corrispondente a quella dei rubli che circolano nel mondo. Sostanzialmente un ritorno a Bretton wood in salsa moscovita.
A cosa servirebbe? Innumerevoli le ipotetiche risposte.
Intanto tentare una spallata (non sarebbe la prima) alla tirannia del dollaro.
Attribuire al rublo quella autorevolezza internazionale di cui non ha mai goduto.
Perfezionare gli strumenti tecnici per obbligare gli utenti a pagare petrolio e gas in rubri.
Sarà l’ennesimo bluff dello zar Putin? Una diavoleria molto spettacolare? Una fandonia?
Al cronista spetta solo origliare e riferire. Svelarci la verità, se ce n’è una, è compito di chi si candida, al Nobel dell’economia.
L’opus