Magistratura nel più profondo caos.

In particolare il CSM e le procure di Milano Brescia Perugia e Roma in conflitto tra loro.

A questo punto sarebbe bene ricordare Rosario Livatino, vittima di mafia nel 1990 e dagli stessi mafiosi definito il giudice ragazzino ed ora portato da Papa Francesco agli onori degli altari.

Non aveva voluto la scorta, pur sapendo il pericolo a cui andava incontro, per evitare che assieme a lui venissero uccisi due carabinieri o due poliziotti.

Il dott. Rosario Livatino nella conferenza tenuta il 30 aprile 1986 a Canicattì, nel salone delle suore vocazioniste, su “L’ASPETTO DELLA C.D. “IMMAGINE ESTERNA” DEL MAGISTRATO” diceva.:

“Si è bene detto che il giudice, oltre che essere deve anche apparire indipendente, per significare che accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n’è un altro, ineliminabile, di forma. L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.”

“Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole.

Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile. La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri.

Occorre allora fare un’altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti coll’ambiente sociale nel quale egli vive.

Qui è importante che egli offra di sé stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire…

…Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Solo se offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole.

Un giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre, configurato in ogni ordinamento dello Stato di diritto, esaltato nella Carta costituzionale. Sotto questo aspetto, pertanto, può ben concludersi che non vi può essere relazione alcuna fra l’immagine del magistrato e la società che cambia, nel senso che la prima non dovrà subire modificazione alcuna, quali che siano i capricci di costume della seconda: il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato.

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