Africo Vecchio

Sulle pendici dell’Aspromonte rimangono i ruderi dei borghi, ormai abbandonati, di Africo Vecchio e della sua frazione Casalnuovo.
Il borgo antico di Africo dal nome latino di “aprìcus” “soleggiato” (Africu in dialetto reggino), fu fondato nel IX° secolo e costruito tutto in pietra. Nel decimo secolo si insediarono monaci basiliani di rito italo-greco e ivi perdurarono fino ai secoli XI e XII in epoca normanna; nel convento basiliano della SS. Annunziata di Africo, visse San Leo, il futuro patrono del paese.

A tal proposito occorre un piccolo accenno storico: i primi monaci greci, specialmente basiliani, arrivarono in Italia meridionale nel VII secolo, quando la Siria e l’Egitto caddero nelle mani degli arabi. Si stabilirono dapprima in Sicilia, poi in Calabria tanto che la provincia di Reggio, fin dall’VIII secolo era coperta da una fitta rete di monasteri basiliani. I monaci vivevano di solito in conventi isolati sulle montagne, lontano dai centri abitati, si dedicavano a studi religiosi e copiavano manoscritti biblici.
Gabriele Barrio, sacerdote de l’Ordine del Minimi nel 1571 nel suo “De antiquitate et situ Calabriae” scrive che ad Africo i riti sacri venivano celebrati in greco e che nei rapporti familiari veniva parlato assieme al latino. Le condizioni della popolazione sin da allora erano disastrose e tali sono rimaste sino alla metà del secolo scorso.
Sopravvive ancora il ricordo dello scontro avvenuto in epoca napoleonica tra i francesi e gli abitanti che parteggiarono per i borbonici.
Le condizioni sociali ed igieniche di Africo nel periodo interbellico, come prima detto, erano disastrose, infatti il meridionalista Umberto Zanotti Bianco, senatore a vita coadiuvato dal giovane futuro economista Manlio Rossi Doria, eseguì un’inchiesta su Africo nella quale riferiva come il paese fosse annidato su case dirupate per il pregresso terremoto; isolato geograficamente, privo di medico e afflitto da malattie e da tasse indiscriminate,. Nel suo Il martirio della scuola in Calabria (1925) parla dell’inesistenza di aule scolastiche (le lezioni si svolgevano nella stanza da letto della maestra); gli abitanti si nutrivano di un pane immangiabile fatto con cicerchie e lenticchie descrivendo Africo il paese «più povero, più triste e più infelice della Calabria».
Il borgo fu abbandonato precipitosamente nel 1951 dopo una terribile alluvione e sino al momento del definitivo abbandono era collegato con il resto del mondo tramite un semplice sentiero.
La popolazione per lungo tempo venne dispersa e costretta a vivere in vari campi profughi, tra cui anche nelle baracche esitate dal disastroso terremoto del 1908 che distrusse Reggio e Messina ed ancora esistenti adiacenti al cimitero di Reggio di Calabria.
Infine, si decise di fondare con il nome di Africo Nuovo, un nuovo paese situato a breve distanza sul mar Jonio tra i comuni di Bianco e Brancaleone, ma tale nuovo comune fino al 1980 fu privo di delimitazione territoriale ed i suoi cittadini continuarono ancora a vivere in condizioni miserevoli.
Oggi, ad Africo vecchio ci si arriva solo a piedi e gli avventurosi che fanno il percorso quasi inagibile che porta dalla costa ionica verso Africo Vecchio una volta arrivati sicuramente, pur essendo un paese fantasma, riescono a percepire ancora la vita dura e aspra che ivi facevano gli uomini e le donne che vissero tra casolari e profondi dirupi, in mezzo a ricoveri per le bestie.
Invece il percorso che da Africo porta al borgo di Casalnuovo sito su una rupe è meglio conservato; è un itinerario affascinante non solo per gli amanti del trekking e della natura, ma anche per chi volesse comprendere l’intimo legame della gente di Africo a questa terra. È una Calabria poco conosciuta e per questo meglio conservata nella sua rude bellezza, tutto decorre alla destra della fiumara La Verde che a monte viene chiamata Aposcipo “luogo celato” o meglio dal greco Απόσχεπος (Apòskepos = “non protetto”). È la Calabria più segreta, visitabile con difficoltà in quanto il luogo e lo stesso itinerario sono soggetti a disposizioni restrittive; infatti ivi vive ed è tutelata una avifauna selvatica assieme ad altre specie protette. L’accesso alla profonda gola a pareti verticali e avvicinate (forra), tra le quali scorre scorre l’Aposcipo con la sua cascata è addirittura assolutamente proibito.
Nel luglio 2018, Africo e Casalinuovo sono stati collegati con un ponte tibetano.
Esiste ancora nella zona di Africo Vecchio la chiesa di San Leo, certamente di matrice bizantina, ad un’unica navata con abside semicircolare e campanile sul fronte principale. Nel campanile sono conservate le due campane di bronzo probabilmente risalenti all’ epoca di costruzione della chiesa. Presenta una cupola con la statua di marmo del Santo, risalente al 1635, di artigianato locale.
All’interno del paese di Africo antica vi sono almeno una decina i palmenti che erano adibiti alla produzione del vino (lat. pavimentum), scavati nella roccia ed alcuni molto grandi sono stati individuati nella vallata della fiumara La Verde (che secondo lo storico Tucidide corrisponderebbe al fiume Caicino), donde il famoso vino Caicino, ritenuto dai Romani uno dei più pregiati dell’epoca.
I vitigni vegetano da quasi 2 mila anni, aggrappati agli alberi di quercia e di castagno sopravvivendo ad altezze inconsuete per la coltivazione delle viti.
La tecnica di produzione del vino ed anche la descrizione del cibo caratteristici del luogo meritano un’altra storia ed oggi pensando ai sacrifici ed alla vita grama di questa calabra gente della Magna Greca chiudiamo con: «Timote anthropos tipote loghia? Etsi einai. Uomo onesto niente parole? Così è. Τιμότε άνθρωπος τίποτα λόγια? Έτσι είναι».

Giuseppe Femiano

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